domenica 9 agosto 2009

Consumatori fin dall’infanzia. Come la televisione “educa” i nostri bambini all’acquisto delle merci


E’ in atto la commercializzazione dell’infanzia. Molti testi recenti e psicologi di fama osservano con preoccupazione il mondo dei bambini e la sua trasformazione: primo attore e mezzo di manipolazione è senza dubbio la televisione.
La dott.ssa Ferraris osserva che il bambino non guarda la TV solo per divertirsi, ma soprattutto per farsi un’immagine del mondo degli adulti. E però fino ai sei/sette anni non è ben attrezzato per comprendere appieno ciò che guarda. Si costruisce un “mondo”che è segnato dai ritmi e dalle strutture televisive e da immagini e situazioni edulcorate. Solo intorno ai 12 anni insorgono strutture di pensiero simili a quelle dell’adulto, perché il bambino sviluppa capacità di astrazione e ragionamento ipotetico e diventa sempre meno dipendente dal dato percettivo.
Ma quanta televisione ha già assorbito un bambino di 12 anni? Tralasciando il folle dato americano, si osserva anche in Italia un consumo di televisione sempre più alto (per i minori ca. 4 ore e 15minuti - il 25% arriva a 5 ore e 15 minuti) ed anche le più recenti ricerche dimostrano che il piccolo schermo intrattiene soprattutto individui delle età più basse. Prima dell’inizio del ciclo scolare il ragazzino americano assorbe 5000-5500 ore di TV, per un quinto pubblicitarie; prima di terminare le medie ha riempito la vita con oltre 20.000 ore di piccolo schermo.
E, soprattutto, è totalmente condizionato dal bombardamento pubblicitario mediatico.
Perché la Televisione oggi è diventata una rete di vendita di dimensioni planetarie. L’American Psychological Association sostiene che i bambini vedono in media 40.000 spot l’anno per un valore 12 mld di dollari. Con il crescere anche il piccolo consumatore comprende il carattere persuasivo della pubblicità: il 66% dopo gli otto/nove anni, età considerata cruciale per la costruzione dell’identità personale e sociale che include anche la propria rappresentazione esterna fatta di indumenti ed accessori. Ma a quel tempo l’Azienda venditrice avrà comunque già veicolato il proprio messaggio pubblicitario – per esempio creando un’atmosfera di consenso intorno al marchio - e in qualche modo “fidelizzato” il bambino. Così lo svago commercializzato si va a sostituire alla socializzazione non strutturata: la maggior parte delle attività dei bambini ruota attorno alle merci. Tutte le multinazionali - alimentari e non – si appoggiano su approfondite analisi di mercato (svolte sempre sui piccini con il consenso dei genitori), sondaggi e focus group. Psicologi dell’età evolutiva collaborano con le Aziende mettendo a loro disposizione conoscenze e suggerimenti che portano a strutturare prodotti sempre più appetibili per l’infanzia. I bambini stessi sono attori delle pubblicità a loro destinate ed esprimono felicità e benessere solo in connessione agli oggetti proposti. Perché bisogna “giocare di meno e comprare di più” (J. B. Shor).
Oggi quattro aziende dominano quasi interamente i mezzi di comunicazione rivolti ai bambini e il mercato del divertimento (Disney, Viacom, New Corp e AOL Time Warner) e due società invece si spartiscono la categoria giocattoli (Mattel e Hasbro): maggiori profitti e controllo di mercato sono le conseguenze. Negli Stati Uniti le stesse società sono riuscite – mediante ad esempio finanziamenti concessi alle scuole – a penetrare anche il luogo sacro dell’apprendimento e veicolare in maniera subdola il proprio messaggio pubblicitario. L’infiltrazione pubblicitaria è massima e le motivazioni mai così limpide: ci si potrebbe ad esempio domandare come mai l’Unicef debba collaborare con McDonald’s.
Le strategie del marketing sono note: per i più piccini funzionano gli animali, i movimenti lenti; poi per i più grandi arrivano le collezioni di giocattoli o figurine “regalati” con il prodotto, i cibi modellati, l’abbinamento con personaggi dei cartoni. Trovare nuovi e fedeli acquirenti è l’obiettivo e per questo si creano nuovi bisogni o si gonfiano fino a stravolgerli quelli già esistenti. E’ il caso della lotta: c’è nei bambini il piacere del contatto fisico, del conoscere il proprio limite, della comunicazione corporea. Ma il Wrestling è altra cosa: è pura finzione, è vendita di un prodotto e dei relativi gadgets.
Il livello di guardia raggiunto per l’obesità infantile è un altro dato allarmante: come non metterlo in relazione al fatto che la maggior parte degli spot indirizzati ad un pubblico di minori – spesso soli davanti al teleschermo – è di junk food (alimentazione spazzatura)?
Da una interessante ricerca australiana è emerso come quasi la metà del contenuto delle tre più diffuse riviste per il target infantile dai 5 ai 13 anni, sia materiale “sessualizzato”: l’utilizzo crescente nella pubblicità ma anche nell’ambiente visivo quotidiano di immagini sessualizzate di bambini (abbigliamento postura e trucco) è una tendenza talmente generalizzata e pervasiva che oramai non ci facciamo neanche caso (Corporate Paedophilia). Ma le conseguenze non possono essere sottostimate.
In ogni parte del pianeta tradizioni e fiabe (locali) sono state soppiantate dai format televisivi per bambini: miti uguali per creature diverse, bisogni identici per profitti da capogiro.
Il bambino abituato a cogliere il mondo per immagini frenetiche e pulsanti studiate per tenere sempre desta l’attenzione troverà grandi difficoltà di concentrazione a scuola, in primis nell’imparare a leggere. E soprattutto ha già totalmente perso la possibilità di sviluppare la propria immaginazione, è più impoverito nel gioco simbolico, fondamentale per lo sviluppo cognitivo.
E se è vero che “durante la lettura di una seguenza di lettere prefissate la mente è libera di prendere autonome decisioni, e anzi è addirittura plausibile che l’idea stessa di Io individuale e di senso d’identità derivi dalla lettura “ (D. Kerckhove) asservirsi alla TV è grave. Ed opporsi doveroso.
Incalzati dall’assillo all’acquisto (nag factor) dei nostri bambini possiamo: scegliere di soddisfare più semplicemente il loro bisogno di omologazione o affrontare l’impervia via dell’opposizione critica all’acquisto. Noi scegliamo certamente la seconda e sappiamo che il successo delle varie strategie di vendita è facilitato soprattutto dalla crisi che la famiglia di oggi attraversa soprattutto a livello di funzioni genitoriali.
I bambini oggi sono peraltro molto meno sereni di un tempo poiché la ricerca continua di possesso, la necessità di essere “cool” (alla moda) per essere socialmente accettati provoca ansia e continuo senso di inadeguatezza che noi sappiano bene non verrà certo colmato da un nuovo acquisto.
L’utilizzo di televisioni tematiche interamente dedicate ad un pubblico di bambini ed adolescenti vanifica in parte le tecniche di vendita più dirette, ma certo non mette al riparo dall’omologazione e dal progressivo isolamento del bambino dalla realtà.
Nonostante sia stato sottoscritto nel 2002 un Codice di Autoregolamentazione da tutte le principali rete televisive che prevede tre livelli di protezione (generale, rafforzato e specifico), numerosi spot pubblicitari avvolgono le trasmissioni dirette ai più piccoli. Diversamente in Grecia è vietata qualsiasi forma di pubblicità sui giocattoli, in Svezia sono state proibite tutte le reclame rivolte ai minori di dodici anni, in Norvegia ed Austria è stata abolita la messa in onda di spot subito prima e dopo i programmi per bambini.
La gestione del tempo del bambino rimane comunque compito e responsabilità del genitore, obbligato a considerazioni di carattere etico ed educativo da cui non può sottrarsi sottostimando la realtà. Obiettivo è conquistare un equilibrio che consenta al bambino di sentirsi comunque integrato nel gruppo ma al contempo sviluppi la sua autonomia, il suo pensiero critico. Nella speranza che col tempo sia in grado di reagire alle lusinghe della pubblicità ed alle illusioni della omologazione.

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